Nota alla X stanzialità di “STRAD-RAMA – L’anciuvé suta prucess”
A costo di parere superficiale, sarò estremamente sintetico: così leggono più persone sino alla fine. Metto anche, per prima, una foto che colpisca. Mancano certo dei dati (la situazione tra l’altro muta di giorno in giorno), ma quelli che cito corrispondono al vero.
Avevo tutto chiaro. Era perfetto. Per concludere e rilanciare il mio progetto di scrittura su strada, avrei portato “l’anciuvé suta prucess” a Saluzzo, centro nevralgico di un territorio dall’agricoltura fiorente, dove ogni anno arrivano centinaia di braccianti. Gente in cerca di lavoro. Tutti africani. Arrivano a cercare lavoro e a offrire una manodopera che lì non c’è più. L’economia locale ne ha bisogno, quindi. Gente che fa decine di chilometri al giorno in bicicletta per andare al lavoro o a cercare lavoro: raccogliere kiwi, pesche, mirtilli. Gente che viene a Saluzzo a farsi sfruttare, rifiutare e discriminare, perché le alternative al sud sono persino peggiori: piantare cipolle in Calabria significa stare in ginocchio tutto il giorno a riempire buchi, con uno dietro che ti dà calci in culo per farti andare più forte, senza orari e per 25 euro al giorno (quando va bene).
Ma “Saluzzo è un modello di accoglienza”, recita uno slogan ricorrente: c’è un locale comunale che ospita i braccianti in possesso di un contratto. Lo si apre in un più o meno determinato giorno dell’anno e ci sono una decina di docce e di angoli cottura in un cui si lavano e cucinano centinaia di braccianti. Vengono controllati da volontari facenti capo a soggetti istituzionali e viene loro negata, nel locale, ogni possibilità di auto-organizzazione e autodeterminazione: sono quelle stesse persone che al mattino partono in bicicletta per fare, a volte, decine di chilometri e andare al lavoro. Sono le stesse persone che non potranno rientrare al centro se si assenteranno per due giorni consecutivi (vietati dunque il ricongiungimento ad affetti o la ricerca di incontri, di vita, oltre l’orario lavorativo) e a cui nessuno – o quasi – pare sia intenzionato ad affittare un alloggio a Saluzzo: non importa se lavorano e possono pagare. Sorvoliamo – per sinteticità, qui – sulle paghe e sulla regolarità dei contratti o meno. Fuori da quel centro ci sono altri braccianti o aspiranti tali, che non possono entrare a dormire. O perché non hanno ancora un contratto, o perché – pur avendolo – sono stati rifiutati: sulla base di uno sguardo, in modo discrezionale. Devono riprovare fra qualche giorno.
Prima che aprisse il locale comunale – prima del giorno fatidico, quest’anno – erano tutti accampati lungo la grande via che lo fronteggia, sui marciapiedi a destra e sinistra: tutti all’erta di notte, perché nel Comune di Saluzzo è anche in vigore un’ordinanza anti-bivacco. Può succedere che le forze dell’ordine ti sveglino alle tre del mattino e ti requisiscano coperte e tende: è successo. Tanti cucinavano in pentole di fortuna a bordo strada, oltre il fossato, e tanti tentavano la sorte: macinando appunto decine di chilometri in bicicletta, per lasciare i loro dati a potenziali datori di lavoro, di cascina in cascina. C’era il ciclista, arrivato da Rosarno, che aggiustava e commerciava biciclette. C’erano i veterani, con le idee chiare, che davano istruzioni ai nuovi. C’era un tentativo di sopravvivenza, di solidarietà e di scambio. Poi è arrivato Aboubakar Soumahoro, un sindacalista con le idee chiare e senza paura e ha spiegato a tutti quanti i loro diritti e la necessità di difenderli. Lo ha fatto con un linguaggio che tutti potessero capire. Sembra un po’ una fiaba, ma è accaduto. Accade. Come accade che il Comitato Antirazzista Saluzzese provi in tutti i modi ad aiutare i braccianti: a offrire loro opportunità di rivendicazione e di vita dignitosa, anche cercando l’intreccio con l’azione di altri gruppi, soggetti e persone complici. Reti di persone solidali.
Ed ecco che scocca il giorno fatidico: è il giorno dopo il discorso del sindacalista, quando le menti dei braccianti lavorano, gli sguardi si moltiplicano, i dialoghi nascono, le speranze crescono, il bisogno di dignità spinge e ogni pedalata alimenta una sfida. Serve un regalo, un “meno peggio” per placare gli animi e dimostrare che “l’accoglienza funziona”: che qui esiste un modello d’accoglienza. Peccato che certi modelli siano tristemente monocromi e monolitici; e che raramente mostrino ombre e crepe reali. Se le mostrassero, non sarebbero quei “certi” modelli. Per essere tali devono invece armarsi di pareti lucide, condite di crepe, sì, ma abnormi, così grandi da non essere viste. Allora si promette a tutti quanti che il locale sta aprendo. Che tutti raccolgano dunque tutti i loro averi e si presentino di fronte al cancello! Che nulla rimanga sui marciapiedi a destra e sinistra. Tutti i braccianti sono ora di fronte al cancello: è stata data loro la speranza e sorridono. Almeno alcuni sorridono. Se tutti devono togliere tutto dalla strada, tutti entreranno. E invece no. E non solo. Appena i braccianti sono di fronte al cancello, sbucano gli operai e in quattro e quattr’otto erigono un grande muro di lamiera. Un muro che taglia la via, che taglia i marciapiedi e le ombre rimaste dei loro abitanti e le aureole di pentole e di ali di pollo e di bici e coperte e cartoni. Aureole oltre la lamiera. Fuochi fatui di vergogna. La vergogna infinita, indicibile e irriconoscibile – perché non provata e anzi eletta a merito – di chi fa costruire quel muro. Di chi mente un attimo per violentare sorrisi. Le violenze colorano tanto gli attimi quanto i secoli. E non guardano in faccia a presente passato e futuro. E i muri presentano sempre il conto. A tutti. Come i sorrisi e le lacrime. Perché tutto riguarda tutti. E a volte tempo e spazio coincidono.
Lo sapeva bene l’anciuvé suta prucess. Mi sto dilungando, chiedo scusa: mentivo, quando promettevo brevità. Ma era una bugia buona. Serve però, ora, leggere sino alla fine, lo prometto e non mento. Ora no. L’anciuvé era stato tra i morti. Non importa se non riepiloghiamo tutta la sua storia. Bastano lampi. Non entrano tutti i braccianti a dormire nel locale comunale: restano in tanti uomini fuori – già lo sappiamo, quelli senza contratto e quelli per i quali neppure averlo basta per entrare -; restano là a bivaccare fra il muro di lamiera, il cancello e altri uomini, in divisa, mandati a controllarli. L’anciuvé sapeva che i morti sono tutti sott’acqua, girano vorticosamente in una grande intercapedine intorno al centro della terra… taglio corto: vi basti sapere che quel liquido in cui sono – “che” sono – serve a raffreddare il centro infuocato della terra e senza di quel liquido finiremmo tutti arrosto, noi vivi. Corsia preferenziale per l’intercapedine ce l’hanno i morti in mare, perché da tutti i mari partono cunicoli attraverso cui vengono catapultati nell’intercapedine. Taglio ancora più corto. Così precipito insieme a voi che leggete. Proviamoci insieme. Proviamo a precipitare in cielo per vedere chiaramente chi precipita sottoterra, in acqua. Vinciamo ogni legge di gravità. Reiteriamo immagini: non entreranno tutti nel cancello, i braccianti, perché servirà avere un contratto e se non si supereranno gli sguardi neanche quello basterà e poi, dentro, troveranno le poche docce, qualche fornello per centinaia di persone, i controlli… etcetera etcetera: il resto è già scritto qui sopra. Vale pure rileggere. Partiamo con immagini chiare, riviste. L’anciuvé parla solo più in piemontese per lo scherzo di un sogno: in pochi capiscono il suo dialetto e allora lo scambiano per un migrante e tre cittadini lo processano in piazza. Chi resta fuori dal cancello bivacca adesso in uno spazio limitato, controllato e controllabile: privato di ogni diritto, è spinto ad andare altrove; al di là del muro di lamiera, la memoria del bivacco trascorso riscrive il limite al meglio (il peggio è scomparso). Dell’anciuvé non si riesce a stabilire la provenienza, quindi non lo caricano sulle camionette pronte in piazza e non lo portano in un centro di detenzione e poi su un aereo o su una nave che lo rimpatri. No, per lui, di cui non si sa da dove arrivi, c’è la motosega pronta: lo farà a pezzi, il gruppo di cittadini con mandato governativo, e lo bruceranno nelle vaschette di acido pronte sotto il gazebo in piazza e con il liquido che ne risulterà riempiranno una tanica che finirà con tante altre in un container, che verrà caricato su una nave e che nel bel mezzo del Mediterraneo verrà aperto e tutte le taniche saranno svuotate in mare. E quel liquido imboccherà un cunicolo e finirà in quell’intercapedine che raffredda il centro della terra: ironia della sorte.
Ecco, ora ho tutto chiaro: stanno per condannare l’anciuvé, lo sto facendo condannare evocandone la storia nel dehor del ristorante “La Castiglia”, nel cuore delle antiche prigioni di Saluzzo. Ne racconto la storia perché il proprietario del ristorante è solidale. Un ristoratore solidale e illuminato, che si fa promotore di un’azione complementare alla solidarietà e ai lumi dei ragazzi del Comitato Antirazzista Saluzzese, di cui ho scritto sopra. Stanno per fare a pezzi l’anciuvé, quando si fa avanti un bracciante: ora so che arriva diritto da quella piccola porzione di bivacco, delimitata da quel muro di lamiere, figlia di speranze tritate. Tritate in un attimo, a foraggiare orgogli indegni. Parla una lingua straniera, non lo capiscono; è dunque un migrante, come l’anciuvé. Per di più è nero: altro chiaro indizio di colpevolezza. Di lui i cittadini sotto al gazebo, con mandato governativo, riescono a stabilire la provenienza: arriva dal Mali. Sarà rimpatriato (prova a fare vedere il permesso di soggiorno: “non serve più” gli dicono, “stai passeggiando in piazza, non va bene”). Tutto avviene in un attimo. Lo stesso tempo che si impiega ad alzare quel muro di lamiera. Un lampo nel tempo. L’anciuvé è fatto a pezzi etcetera etcetera; il bracciante è rinchiuso in un centro e rimpatriato; tirano fuori dal container in alto mare la tanica con i resti acidosi dell’anciuvé – pensate, uno che parlava l’antica lingua dei “nostri” posti scambiato per uno straniero, che beffa… scambiato, segato e sciolto nell’acido -; ma tempo e spazio coincidono a volte, si sa, e il bracciante arriva in Africa e subito riparte dall’Africa e naufraga in alto mare, poco lontano dalla nave che sta svuotando le taniche con i resti liquidi dei migranti di ignota provenienza; il liquido dell’anciuvé abbraccia e trasporta i resti del migrante morto affogato: vanno diritti, insieme, dentro uno dei noti cunicoli e precipitano nell’intercapedine intorno al centro infuocato della terra. Ma appena entrati non fanno la curva, non seguono l’onda del liquido di raffreddamento. Vanno, liquido e resti, doppio perfetto di barbari, amalgama di corpi mal-parlanti, proiettile più duro del diamante, vanno diritti a scalfire la parete raffreddata e aprono un varco nell’incendio chiuso al centro della terra. E il fuoco zampilla potente, perpendicolare all’onda centrifuga del macabro paraflu e buca la terra fino alla crosta, che pian piano fiorisce di crateri e falò.
Facciamo tutti attenzione a dove mettiamo i piedi.